Con riferimento ai reati tributari di Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10 bis, D.Lgs. n. 74/2000) e di Omesso versamento di IVA (art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000), l’elemento soggettivo richiesto per la punibilità è semplicemente integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta del contribuente di non versare i tributi (cd. dolo generico). In giurisprudenza è stato testualmente affermato che “La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono” (cosi, tra le altre, Cass. n. 50007/2019).
Tuttavia, i contribuenti hanno spesso invocato la “crisi di liquidità” quale elemento integrante l’esimente della forza maggiore. Esimente che, nel diritto penale, è configurabile nei casi in cui il soggetto abbia fatto tutto il possibile per uniformarsi alla legge, ma, per cause indipendenti dalla sua volontà, non abbia potuto evitare la condotta antigiuridica (rispettivamente, l’omesso versamento di ritenute dichiarate o certificate per oltre 150K entro il termine di presentazione della relativa dichiarazione (31 ottobre dell’anno successivo), e l’omesso versamento di IVA dichiarata per oltre 250K entro il termine di versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo (27 dicembre del medesimo anno cui si riferisce la violazione)).
La giurisprudenza penale di Cassazione non ha escluso, in linea di principio, che la crisi di liquidità possa atteggiarsi come un fatto idoneo a vincere la volontà del contribuente di provvedere al pagamento delle imposte, ma ha individuato delle condizioni stringenti che hanno reso nei fatti estremamente raro il riconoscimento della mancanza di liquidità come causa di forza maggiore.
I Giudici di legittimità hanno, infatti, a più riprese evidenziato la necessità che venga dimostrato in giudizio che la crisi di liquidità, per assurgere a causa di forza maggiore esimente la responsabilità penale:
1) non sia correlata in alcun modo alla condotta gestionale del contribuente;
2) non si sia potuta evitare mediante il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto, tra le quali rientrano sia il ricorso al credito bancario, sia altre opportune azioni che la giurisprudenza definisce “sfavorevoli per il patrimonio personale” del contribuente o del socio dell’impresa.
Il ragionamento dei giudici di legittimità sembra partire dalla constatazione che la crisi di liquidità fa parte del rischio di impresa e, quindi, per poter essere invocata come “forza maggiore”, non può dipendere dalle scelte operate dall’imprenditore nella destinazione delle proprie risorse.
Questa considerazione ha portato ad escludere la forza maggiore nei casi in cui il contribuente, con la limitata liquidità a sua disposizione, anziché effettuare i versamenti tributari aveva fatto fronte a pagamenti di altra natura (pagamento dei dipendenti, pagamento dei fornitori, pagamento dei debiti nei confronti degli istituti di credito, etc.), a nulla rilevando – nell’ottica dei giudici di legittimità – che ciò avesse l’obiettivo di garantire la continuità aziendale.
Questa valutazione, notevolmente restrittiva, dell’ambito di applicazione dell’esimente della forza maggiore per mancanza di liquidità, è stata anche alimentata dalla considerazione che sia l’IVA che le ritenute sarebbero risorse che hanno un preciso vincolo di destinazione sin dall’origine, ovvero sin dall’incasso delle fatture quanto all’IVA e dal pagamento delle retribuzioni quanto alle ritenute.
Pertanto, la scelta dei contribuenti, in una situazione di crisi di liquidità, di privilegiare i pagamenti a dipendenti, fornitori o banche, rispetto al fisco (quanto all’IVA ed alle ritenute, naturalmente) non è stata valutata favorevolmente dai giudici di legittimità, sulla base della considerazione che non sarebbe consentito al contribuente finanziare la propria attività con risorse destinate alla collettività.
Tanto più che – come non manca mai di sottolineare la Suprema Corte – l’omesso versamento di IVA e ritenute diviene penalmente rilevante in un momento successivo a quello in cui detta omissione rileva ai fini tributari. L’omesso versamento delle ritenute diviene, infatti, penalmente rilevante solo se persiste per importi oltre soglia al momento della presentazione della dichiarazione annuale di sostituto imposta, mentre l’omesso versamento dell’IVA è penalmente rilevante se persiste per importi oltre soglia entro il temine per di pagamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Da ciò, infatti, la Corte di Cassazione ha dedotto che, se il contribuente nel termine (“lungo”) penalmente rilevante non è riuscito a “sanare” l’omesso versamento di IVA e ritenute pregresse, è perché non ha organizzato le proprie risorse in modo tale da scongiurare la consumazione del reato e dunque l’evento non può ascriversi a “forza maggiore” quanto piuttosto ad una consapevole condotta gestionale non scusabile.
A fronte di una giurisprudenza penale di legittimità che appare decisamente poco sensibile al tema della crisi di liquidità, non sono mancati peraltro nella medesima giurisprudenza taluni accenti più elastici laddove, ad esempio, è stato riconosciuto che l’indisponibilità del denaro occorrente ad effettuare i versamenti tributari non può essere sempre irrilevante e la forza maggiore può anche consistere nella “imprevista ed imprevedibile indisponibilità” del denaro necessario ad effettuare i versamenti tributari “non correlata in alcun modo alla condotta gestionale dell’imprenditore”.
In alcuni casi, poi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’insolvenza dei debitori nei confronti dei quali siano state emesse le fatture possa configurare una crisi di liquidità idonea ad integrare una ipotesi di forza maggiore nell’omesso versamento della sola IVA (a condizione, peraltro, che venga data dimostrazione delle ragioni che hanno indotto il contribuente all’emissione anticipata delle fatture rispetto al pagamento del dovuto).
In questo contesto, come potrà evolversi la giurisprudenza quando sarà chiamata a decidere se e a quali condizioni l’attuale crisi di liquidità causata dalla pandemia da COVID-19 possa essere ritenuta esimente “di forza maggiore” penalmente rilevante? Quali azioni è opportuno che i contribuenti pongano in essere a riguardo?
E’ possibile ipotizzare almeno due distinte situazioni.
- La prima, riguarda i contribuenti non in regola con i versamenti dovuti prima dell’arrivo della pandemia ma che avevano organizzato le risorse o pianificato il proprio cash-flow futuro per sanare il proprio debito entro i termini fissati dalle leggi penal-tributarie. Questi potrebbero sostenere che la crisi di liquidità causata dalla pandemia ha completamente stravolto la pianificazione delle risorse e che pertanto, a causa di questa crisi, non è stato per loro possibile arrivare preparati alle scadenze penalmente rilevanti. Si dovrà comunque dimostrare, da un canto, che al momento in cui si è verificata la situazione emergenziale erano presenti le risorse per pagare IVA e ritenute entro la scadenza penale; dall’altro, di aver messo in atto tutte le misure disponibili per reperire la liquidità necessaria per il pagamento delle imposte, tra le quali anche quelle specificamente approntate dal Governo (finanziamenti garantiti, bonus, cassa integrazione etc.). Diversamente il rischio, tutt’altro che remoto, è quello di vedersi negata l’esimente pur in presenza di una crisi come quella in corso.
- La seconda situazione riguarda i contribuenti in regola con i versamenti fino all’arrivo della pandemia da COVID-19, che a causa di quest’ultima non riusciranno più ad accantonare le risorse per far fronte ai versamenti futuri entro le scadenze penalmente rilevanti. Anche in questo caso, peraltro, per poter invocare l’esimente nel momento (successivo) in cui l’omesso versamento di IVA o ritenute dovesse divenire penalmente rilevante, si dovrà senz’altro dimostrare di essersi avvalsi di tutte le misure di sostegno (emergenziali e non) per reperire la liquidità necessaria al pagamento delle imposte. Non è escluso che, in questa seconda situazione, la condotta “gestionale” tenuta nel periodo precedente alla crisi – che ha consentito di far fronte con regolarità ai pagamenti delle imposte – possa costituire un elemento aggiuntivo a sostegno della “forza maggiore” dell’evento esterno rispetto alla forza del contribuente e, quindi, a sostegno dell’esimente penale.
In conclusione, nonostante la gravità del momento attuale che potrebbe indurre a ritenere che il versamento di IVA e ritenute possa essere “legittimamente” posposto rispetto ad altre esigenze (pagamenti di dipendenti, fornitori, banche), magari argomentando che lo stesso Governo ha sospeso alcuni versamenti tributari in ragione della pandemia, i contribuenti sono oggi chiamati a mettere in campo tutti i mezzi a disposizione per arginare la crisi di liquidità, accedendo o, comunque, dando prova di avere tentato di accedere a tutte le misure di sostegno fornite dal Governo.
D’altro canto, è anche auspicabile che la giurisprudenza riesamini criticamente la rigidità della propria posizione in merito al riconoscimento della crisi di liquidità come forza maggiore esimente della responsabilità penale, in caso di omessi versamenti IVA e ritenute oltre soglia.
Quanto alle ritenute, ad esempio, è auspicabile un ripensamento dell’orientamento secondo cui il contribuente dovrebbe addirittura “ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò’ comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare” (Cass. n. 43811 del 10/04/2017), di fatto formulando il discutibile suggerimento di non pagare le retribuzioni se non si possono pagare anche tutte le ritenute ad esse relative (con buona pace dei rapporti tra contribuenti lavoratori dipendenti e fisco).
Anche l’argomentazione secondo la quale la forza maggiore per carenza di liquidità non può essere riconosciuta in caso di mancato pagamento dell’IVA perché quest’ultima sarebbe stata già riscossa dal contribuente al momento dell’effettuazione dell’operazione ed avrebbe quindi dovuto essere “accantonata per l’Erario” (così, tra le altre, Cass. n. 36374/2019), appare una posizione avulsa rispetto alle modalità ordinarie di gestione della tesoreria nell’impresa.
E’ impensabile, infatti, che le somme incassate per rivalsa non vengano utilizzate nel ciclo d’impresa; chiedere che ciò non avvenga equivale a chiudere aprioristicamente ed irragionevolmente ogni rilevanza alla “forza maggiore” per crisi di liquidità. Inoltre, questa posizione sembra contraddire altre affermazioni dei giudici di legittimità quali quelle che, ad esempio, chiedono di attivare linee di credito bancarie per onorare i debiti tributari (implicitamente riconoscendo che l’imprenditore non può tenere congelata l’IVA riscossa in rivalsa), o quelle secondo cui l’indisponibilità del denaro occorrente ad effettuare i versamenti tributari non può essere sempre irrilevante.
A voler tacere, infine, della situazione in cui le fatture restano insolute, situazione nella quale i giudici di legittimità chiedono una irragionevole dimostrazione dei motivi che hanno indotto il contribuente all’emissione anticipata delle fatture rispetto al pagamento del dovuto. Richiesta che nell’attuale momento storico sarebbe vieppiù fuori contesto. Gli operatori economici tentano di fatturare tutto il fatturabile allo scopo di raccogliere la massima liquidità possibile. Con il prevedibile risultato, peraltro, di un significativo incremento delle fatturazioni insolute, dato che anche gli operatori economici destinatari di tali fatture si trovano nella medesima situazione di carenza di liquidità delle loro controparti.
fonte: studio legale Nunziante Magrone