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In ragione del continuo aggravarsi della situazione epidemiologica da COVID-19 e di fronte al rischio che sempre più aziende siano chiamate a rispondere del caso di infezione da Coronavirus contratto dai propri dipendenti, è necessario riprendere il tema dell’eventuale responsabilità civile e penale che possa derivare al datore di lavoro.

Come noto, inizialmente l’allarme è esploso a seguito dell’equiparazione (disposta dal secondo comma dell’articolo 42 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 c.d. Decreto Cura Italia, convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27) a fini assicurativi, dei casi di infezione da Coronavirus contratta in occasione di attività lavorative a veri e propri infortuni sul lavoro.

Successivamente l’INAIL, per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, con la circolare 20 maggio 2020 n. 22, si è pronunciata riconoscendo che “la responsabilità̀ del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n. 33”. E ancora ha aggiunto che “il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può̀ assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero”.

Ma l’incessante dibattito in merito alle contrapposte esigenze di tutela dei lavoratori da un lato e di esonero da responsabilità dei datori di lavoro dall’altro lato è stato oggetto anche di un’accesa discussione nelle aule del Parlamento, in particolare in occasione della conversione del Decreto 8 aprile 2020 n. 23, detto anche Decreto Liquidità.

Il testo del citato Decreto, modificato con legge di conversione 5 giugno 2020 n. 40, prevede all’art. 29 bis che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiano “all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste”. “Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni – continua il testo dell’articolo – rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

L’articolo citato se da un lato determina una presunzione di colpevolezza generica nell’ipotesi di violazione dell’obbligo previsto all’art. 2087 c.c. laddove il datore di lavoro non rispetti le disposizioni contenuti nei protocolli, nonché nei D.P.C.M. e nelle Ordinanze Regionali, dall’altro lato nulla precisa rispetto ai principi generali in tema di responsabilità penale dello stesso, con la conseguenza che, nel silenzio del legislatore, si corre il rischio di applicare il generico obbligo tanto ampio quanto indeterminato quale è quello a carico del datore di lavoro sancito all’art. 2087 c.c., consistente nell’adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, siano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro anche in ambito penale.

Ora, sebbene parte della giurisprudenza sia ripetutamente intervenuta per tentare di circoscrivere la portata della clausola aperta rappresentata dall’art. 2087 c.c., precisando che tale obbligo non vada esteso a ogni cautela possibile e innominata, ma riferito solo a comportamenti che trovino fondamento in fonti del diritto di rango primario o secondario o suggeriti dalla tecnica e che siano concretamente individuati e individuabili, l’elasticità della fattispecie civilistica ha generato, sul fronte penale, interpretazioni altrettanto ‘elastiche’, dirette a estendere la portata della posizione di garanzia/protezione del datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti, fino ad ampliare a dismisura la diligenza allo stesso richiesta, senza che questa possa esaurirsi quasi mai nel rispetto delle regole cautelari scritte.

Per ciò che emerge dalla semplice lettura del contenuto di molte cautele descritte nei protocolli richiamati dall’art. 29 bis, residuerà sempre un margine di accertamento della effettiva idoneità tecnica delle misure di sicurezza normativamente previste: si pensi, per esempio, al funzionamento della strumentazione per la misurazione della temperatura al momento dell’ingresso sui luoghi lavorativi.

Di conseguenza, non si potrà prescindere – in caso di effettiva contestazione – dall’attribuire una parte inevitabile di colpa generica, legata sia alla genericità di alcune prescrizioni che alla necessità di adeguarle alla particolarità del caso concreto, per il tramite (quantomeno) di un’appropriata manutenzione degli strumenti, di una corretta attuazione dei protocolli, di una assidua vigilanza del rispetto da parte dei lavoratori delle cautele adottate e di una verifica – ex ante e in concreto – della loro idoneità allo scopo. Non è casuale infatti che l’art. 29 bis richieda al datore, oltre all’adozione delle misure previste nei protocolli e nelle linee guida, proprio il loro mantenimento, con ciò esigendo un’opportuna attività organizzativa per la loro efficace attuazione.

A tal riguardo si ricorda che a seguito della attuazione della direttiva direttiva UE 2020/739 del 3 giugno 2020 prima con l’art. 4 del d.l. 7.10.20 n. 125 del 2020 e poi con l’art. 17 del d.lgs. 9.11.20 n. 149 (cd. Decreto Ristori bis) il rischio da COVID-19 è stato incluso nei rischi biologici del gruppo 3 ovvero, secondo la definizione data dall’art. 268, comma 1, lett. c) del D.lgs. 9.10.08 n. 81, è “considerato un agente che può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche”.

Ne discenderebbe, dunque, che il silenzio del legislatore in tema di responsabilità penale del datore di lavoro in caso di contagio da Covid-19 ed il richiamo ad un generico rispetto dei protocolli e delle linee guida indicate all’art. 29 bis del Decreto Liquidità, che richiama l’art. 2087 c.c., non possa in ogni caso ritenersi una sicura esclusione di responsabilità penale; esclusione che per sua natura pretenderebbe viceversa di essere il risultato di una più esplicita scelta politica, da tradursi in una previsione legislativa chiara che escluda chiaramente ogni responsabilità penale (per colpa specifica e generica) del datore di lavoro in caso di rispetto delle cautele inserite nelle fonti richiamate e che impedisca, in tal caso, espressamente di attribuire rilievo penale ad ogni altro comportamento pur produttivo dell’evento infausto.

Fonte: Studio Legale Nunziante – Magrone

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